Scuola Holden, la fabbrica delle illusioni a caro prezzo e la grancassa dei media in difesa del circolino che conta
In questi giorni un dibattito sta infiammando il Web. E tutto è partito dalla newsletter di una ex studentessa che ha deciso di squarciare il velo di Maya della intoccabile scuola fondata da Baricco
Vale la pena spendere 20.000 euro per iscriversi alla Scuola Holden, il tempio dello storytelling fondato da Alessandro Baricco nel 1994? A quanto pare no, a meno che tu non abbia le spalle già coperte. La Holden da circa un trentennio è considerata una vera e propria istituzione nell’ambiente dell’editoria, del giornalismo e della comunicazione, una meta ambita da migliaia di aspiranti studenti pronti a tutto pure di entrare in quella che è sempre sembrata essere la porta d’accesso per eccellenza a un brillante futuro professionale nel campo della cultura. O almeno, così è sempre stata descritta, dalla inscalfibile narrazione social della Holden stessa e dalla stampa italiana, che ha riservato alla scuola solo lodi e mai mezza riga di critica. Bastava cercare “scuola Holden” su Google per essere inondati da decine e decine di articoli che la dipingevano come una sorta di paradiso professionale in terra. Un esclusivo club a cui possono avere accesso solo i migliori. Creativi di reale talento selezionati in maniera minuziosa e attenta. Meritocratica. Mica un posto dove pagando chiunque entra. Peccato che Holden per molti studenti si sia rivelata una fabbrica di illusioni a caro prezzo. 20mila euro a biennio, per essere precisi.
L’immagine patinata e mai scalfita da mezzo biasimo pubblico è rimasta pressoché intatta per decenni, finché un bel giorno Kants Exhibition, una ex studentessa della scuola, ha deciso di mettere nero su bianco in un lungo post su Substack le (poche) luci e le tante ombre che ha incontrato durante il suo percorso alla Holden. Il titolo, eloquente: “La Scuola Holden e la filiera della creatività a pagamento - 20.000 euro per una firma di Baricco”. E apriti cielo, perché quel post ha squarciato il velo di Maya. Per la prima volta qualcuno aveva avuto l’ardire di muovere una critica a un’istituzione dalla reputazione pubblica praticamente intonsa. E finalmente, oserei anche dire. Badate bene, la ripetizione della parola “pubblica” non è un errore o un refuso. E’ la chiave di questa vicenda. Perché nel privato le ombre della Holden non erano affatto così ignote. Anzi, tutto il contrario. Molti ex studenti parlavano eccome, con cocente delusione, della loro pessima esperienza e dei sogni infranti. Bastava chiedere. E io per esempio chiesi eccome quando, a un certo punto della mia carriera, ferma a un binario morto, cercavo disperatamente una soluzione che mi permettesse di aprire porte che fino ad allora non ero mai riuscita ad aprire. Perché a questo serve davvero la Holden, la formazione è un contorno. La Holden è pubbliche relazioni. “Ma la Holden com’è? Vale la pena?”. “Lascia stare”, mi sentii rispondere, da più persone. E i motivi di questo lascia stare li hanno spiegati benissimo Kants Exhibition e Ambra Stancampiano nei loro post testimonianza.
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Per quanto le pecche e le ombre della Holden fossero note nel privato, pubblicamente non lo erano. Era davvero difficile trovare testimonianze pubbliche dettagliate. Perché la paura di eventuali ritorsioni era forte. Anzi, è tutt’ora fortissima, come traspare dalle testimonianze diffuse in questi giorni. Ed è facile anche capire il motivo di questo panico: la Holden di fatto è uno dei tanti circoletti di potere all’italiana che piace alla gente che piace e che ha il potere di silenziare qualsiasi critica non gradita, di conseguenza anche l’estensore dell’eventuale biasimo. Ma tra scarsa trasparenza, un ambiente alla Mean Girls e pratiche commerciali aggressive basate sulla pressione psicologica, di cose da dire pubblicamente ce ne sono eccome.
Ci ho messo anni a trovare il coraggio di raccontare questa esperienza. Non per mancanza di parole – quelle non mi mancano mai – ma per paura. Paura di ritorsioni, chiusure, porte sbattute in faccia in un settore dove le porte sono già pochissime e spesso aperte solo a chi ha la chiave giusta. È una paura fondata? Non lo so. So però che la Scuola Holden – ora Feltrinelli Holden – ha ramificazioni ovunque: docenti, ex docenti, ospiti illustri, ex allievi diventati interni, interni diventati “figure di riferimento”, festival, bandi, premi, scrivanie editoriali, e persino qualche red carpet. È un piccolo ecosistema autosufficiente. Quindi sì, potrebbe anche succedere qualcosa. Oppure no. Ma oggi ho deciso che il mio silenzio non vale più di questa storia.
Con queste parole inizia il lungo racconto di Kants Exhibition. L’ex studentessa racconta con dovizia di particolari la sua esperienza alla Scuola Holden, che ha frequentato il percorso Original negli anni 2018-2020. Cos’è Original? “Il biennio da 20.000 euro (10.000 all’anno), un percorso che non rilascia alcun titolo legalmente riconosciuto. Solo un attestato di frequenza”.
L’iscrizione alla Holden sembra essere una scelta da fare sostanzialmente alla cieca. Un atto di fede. Perché nulla è davvero esplicitato prima dell’ammissione e dunque del pagamento: “Non esiste un piano didattico pubblico, non ti viene fornito un monte ore, non c’è un programma ufficiale o trasparente. È tutto molto… fluido. La scuola non è tenuta a rilasciare nulla, perché non è un ente di formazione riconosciuto”.
Alla Scuola Holden entrare è di fatto molto semplice, anche se la narrazione vuole che sia un istituto esclusivo dove solo gli studenti davvero meritevoli riescono a entrare. La realtà sarebbe però completamente differente.
Ogni anno, la Scuola Holden organizza(va) test d’ingresso in diverse città. Bastava compilare un modulo online, scrivere una lettera motivazionale, pagare 10€, scegliere una data e presentarsi. Il test consisteva in una prova scritta a tema – declinata in sette “college” (scrittura, cinema, serialità, ecc.) – e un vago colloquio nel pomeriggio. Non si veniva mai bocciati del tutto: anche se non si accedeva al college preferito, veniva comunque proposta un’alternativa.
Particolarmente interessante ho trovato il passaggio dove si parla del contratto che ogni studente è tenuto a firmare per diventare cliente, sì cliente avete letto bene, della Holden.
Per iscriversi al biennio 2018–2020 serviva firmare un contratto in pieno stile aziendale, racconta, con una caparra da 2.000€ da versare entro 7 giorni dalla comunicazione e una retta da 10.000€ l’anno, scontata a 9.500 se pagavi in anticipo. Sei talentuoso ma non te lo puoi permettere? Allora esiste la possibilità di accedere a un prestito parziale con Intesa San Paolo. E poi ci sono le borse di studio, in caso. Nel biennio in oggetto erano 20 in tutto, da 2.000€/anno con criteri di assegnazione poco chiari.
Attualmente sul sito della Holden figurano queste borse di studio e, insomma, sembra lampante alla lettura della lista di opportunità messe sul piatto che alla Holden ci si può iscrivere solo se puoi permettertelo, il merito e il talento c’entrano ben poco.
Ci sono a disposizione 30 borse di studio, che vengono assegnate a ogni data di test in base a quattro fasce di reddito:
con ISEE fino a 10.000 euro: sono disponibili 4 borse da 4.000 euro l’anno
con ISEE fino a 20.000 euro: sono disponibili 6 borse da 3.000 euro l’anno
con ISEE fino a 30.000 euro: sono disponibili 8 borse da 2.500 euro l’anno
con ISEE fino a 40.000 euro: sono disponibili 12 borse da 2.000 euro l’anno
Trovo davvero difficile che uno studente con un Isee fino a 10 o 20.000 euro l’anno possa permettersi di pagare, al netto della borsa di studio, un master da 6000/7000 annui. In proporzione, anzi, l’aiuto fornito a chi ha Isee più alti è di fatto maggiore. Non esattamente meritocratico, per usare una definizione che dalle parti della Holden piace molto.
Ma andiamo alla parte più interessante, quella del contratto. Perché per diventare studente della scuola di scrittura più ambita d’Italia devi firmare un contratto che contiene una clausola piuttosto particolare: tutto ciò che produrrai durante il corso – testi, idee, progetti – diventava utilizzabile dalla scuola senza alcun compenso. Con diritto di modifica, purché non ne danneggiasse “l’onore”. In sostanza, se vuoi studiare alla Holden devi cedere i diritti d’autore. Pagando, pure.
Insomma, già solo con questi elementi appare evidente che la Holden più che da scuola in cerca di talenti sembra essere una macchina commerciale votata al mero profitto. E questo si nota in maniera cristallina anche dal pressing psicologico che scatta alla ricezione della mail che comunica l’ammissione: sette giorni, non uno di più non uno di meno. Un’urgenza che manco Samara in The Ring.
Alla lettura del processo di selezione, ammissione e reclutamento mi sono venute in mente le pratiche commerciali che mettono in atto decine di catene di palestre sparse per l’Italia. Il club è esclusivo, devi “fittare con noi”, le premesse, poi però scatta l’urgenza di far firmare il contratto a qualsiasi costo, il prima possibile, perché altrimenti sai com’è perdi la possibilità di entrare a far parte dell’esclusivissimo club. Poi sappiamo tutti che in realtà di esclusivo c’è ben poco e che basta ripassare dopo qualche giorno per trovare la stessa identica offerta e l’unica cosa che conta è pagare.
Con la testimonianza di Kants Exhibition il vaso di Pandora è stato scoperchiato. Sono arrivati i commenti, le condivisioni, altre testimonianze. Ad esempio quella di Ambra Stancampiano.
“È un post difficile da scrivere, non solo per una eventuale paura di ripercussioni. Quella una volta c'era, e c'era di brutto, ma a 10 anni dal mio diploma posso dire con un certo disincanto che ho fatto le mie scelte, so benissimo a che altezza è piazzato il mio personale soffitto di cristallo”, scrive Ambra, ex studentessa della Holden in un lungo post da quattro atti pubblicato su Facebook. “IL POST SULLA HOLDEN CHE SCRIVO E CANCELLO DA 10 ANNI”, il titolo. Eloquente.
Frequentare la scuola è un privilegio, tu sei una privilegiata, devi essere grata, devi ringraziare, guarda che lusso, che gente importante, frequenta solo e soltanto i tuoi pari, vedi che è difficile entrare in questa cerchia, cura i tuoi contatti, il vero investimento è per i contatti, devi acquisire più contatti possibile, essere piacevole, smussa i tuoi spigoli, devi uscire simpatica, questa è gente esclusiva e tu sei qui per fare un lavoro esclusivo, non vorrai mica buttare alle ortiche questo privilegio?
Eppure, fin dal primo giorno, mi è stato subito chiaro che io ero la meno privilegiata dai presenti: il fatidico 8 ottobre, primo giorno di scuola, nell'aula magna... Ehm... GENERAL STORE tutti già si conoscevano. Qualcuno (mai capito se a livello istituzionale, ma chi altri poteva avere tutti i nominativi degli ammessi di quell'anno?) aveva creato un gruppo Facebook degli alunni di quel biennio, io ero l'unica a non essere stata invitata.
Ambra prosegue il racconto ed emerge chiaramente quanto alla Holden conti più il talento nelle pubbliche relazioni che quello nella scrittura. Se vuoi andare avanti devi piacere alla gente che piace. E alla gente che piace di solito piaci se sei malleabile. Anzi, servile.
La narrazione social della Holden la conosciamo tutti. Un posto magico, la scuola che tutti sognano, lavorare con le storie, la fucina di talenti, gli interessi politically correct etc. In fin dei conti, nulla di diverso da quello che ogni azienda fa sui social per attirare clienti. Perché è quello che eravamo noi studenti, dei clienti paganti che attraverso un biennio tosto volevano conseguire un risultato professionalizzante. Per come la Holden si comunica - e soprattutto si comunicava - questo percorso sarebbe stato favoloso, divertente, un lavoro che neanche ti rendi conto di svolgere insieme a uno scanzonato gruppo di amici scapigliati e creativi che ti avrebbero accompagnato per tutta la vita. Per qualcuno tutto questo è stato sicuramente vero.
Ma questa è, appunto, la narrazione che la scuola faceva di sé all'epoca.
C'è poi una narrazione interna, che è quella che vede "contrapporsi" il macro gruppo degli allievi con la direzione, i docenti e il personale. Alla Holden può capitare di non venire giudicato tanto per quello che fai, ma per come ti poni. E se ti poni male con la persona sbagliata, potresti avere problemi con tutto il corpo docente indipendentemente da quello che poi sarà il tuo rendimento o il tuo comportamento in classe […]
C'è poi un'altra narrazione, più interna e parecchio sottotraccia, che riguarda il successo e il fallimento di chi ha frequentato la scuola. In soldoni, se dopo la Holden non lavori per una major (radio, TV, editore, casa di produzione, agenzia pubblicitaria, poco importa) sei un fallito, sei mediocre, hai qualche problema mentale, sei da buttare via.
Il che potrebbe anche essere visto come una deresponsabilizzazione bella grossa da parte della scuola, che all'epoca prometteva una sistemazione principesca a tutti, nonostante sia fisicamente impossibile, in un sistema culturale altoborghese come quello italiano, piazzare 150 persone l'anno (all'epoca, mi sa che adesso sono anche di più) in realtà di prestigio. Ma, che ci crediate o no, a me non interessa puntare il dito e non è con questo spirito che scrivo: io voglio solo elaborare quello che è successo 10 anni fa, e che ha di fatto cambiato tanto nella mia vita.
Chiaramente questa del fallimento e della mediocrità è la narrazione preferita di quelli che "ce l'hanno fatta", anche se farcela potrebbe voler dire aver lavorato per anni in una catena di schiavitù malpagata che, a fronte dei tuoi sforzi, non mette manco il tuo nome a firma della roba che tu produci finché non sei diventato abbastanza influente, qualsiasi cosa voglia dire.
Anche Ambra punta molto sulla mancanza di trasparenza della Holden rispetto alle informazioni sui piani di studio. Alla Holden ci si iscrive un po’ a scatola chiusa. Un po’ sulla fiducia, quella fiducia costruita attraverso decenni di storytelling incrollabile, che di fatto non permetteva a nessuno (pubblicamente) di mettere in dubbio la qualità di un’offerta formativa che di fatto non era possibile conoscere prima dell’ammissione al corso. E quindi prima di pagare. E anche successivamente non è che brillasse propriamente per chiarezza.
I programmi didattici dei college infatti all'epoca non erano consultabili dagli studenti, o almeno non prima di esservi ammessi. E dopo, con l'orario delle lezioni, abbiamo ricevuto più che altro una lista di nomi, quelli dei relatori, con al massimo il titolo della lezione/ciclo di lezioni, senza mai troppi dettagli o spiegazioni. La scuola aveva la pretesa di stimolare ogni giorno il nostro senso della sorpresa e della meraviglia.
A pensarci adesso, è una delle cose meno trasparenti e corrette possibili, soprattutto a fronte di una spesa come quella che tutti noi studenti abbiamo affrontato. Spero che le cose siano cambiate, perché la meraviglia è bella quando si accompagna a un po' di concretezza e non quando diventa una scusa dietro la quale nascondere una volontà organizzativa spesso fallace.
Avete presente la storia della farfalla che batte le ali e crea un casino in giro per il mondo? Ecco, praticamente la reputazione pubblica della Holden è crollata così, in un batter d’occhio, grazie al post di una signora nessuno pubblicato su Substack. Un atto coraggioso che ha infuso coraggio anche a chi per molto tempo non era stato in grado di trovarlo. “Signora nessuno” non lo uso in maniera dispregiativa verso l’ex studentessa, sia chiaro. Lo uso perché sono assolutamente convinta che quello sia il pensiero che alla Holden hanno avuto alla lettura di quel post. “Va be’, ma chissenefrega. “Chi vuoi che la legga? E’ una con poco seguito che ha scritto uno sfogo sui social, nulla di importante”. Questo devono aver pensato dalle parti di Torino, facendo spallucce e credendo che la reputazione intonsa sarebbe rimasta tale per sempre perché chi vuoi che la calcoli una che non ha santi in paradiso e amicizie influenti nei posti giusti? E invece, surprise surprise, è stato Davide contro Golia. E quando la situazione si è fatta complicata, alla Holden diciamo che hanno mostrato un talento non esattamente eccelso nella comunicazione e soprattutto nella gestione della crisi reputazionale che come una valanga li stava travolgendo. E proprio su questo punto mi soffermerei, perché la reazione è stata quanto di più grottesco potesse immaginarsi perfino lo sceneggiatore di Boris.
A cazzo di cane, soprannominerei la strategia messa in campo. Una strategia che nemmeno uno stagista al primo giorno di tirocinio avrebbe proposto. Un harakiri. Un video intriso di classismo e battute anni ‘80 che per un attimo ho pensato di star guardando uno spezzone di Yuppies. Un video dove gli intervistati parlano solo di soldi. Alla Holden, alla lettura del post di Kants Exhibition devono aver capito che il problema della ragazza fosse il prezzo. Peccato che quel post ponesse spunti e riflessioni decisamente più profondi.
Dopo il video, il dietrofront. Contenuto cancellato alla velocità della luce. Anzi, la velocità è stata direttamente proporzionale alle secchiate di letame che stavano arrivando nei commenti sotto al video. E poi, ciliegina sulla torta: la stampa amica. Ma vorrai mica lasciare gli amici in difficoltà? Assolutamente no. E via quindi di articoli dove si raccontano le felicissime esperienze di studenti che grazie alla Holden sono finiti a lavorare direttamente al Corriere della Sera.
Oppure, molto simpatico anche questo, il titolo del pezzo dedicato al video della discordia dove si parla (forse troppo) di soldi. FORSE.
Oppure Repubblica, che ci tiene a sottolineare che la testimonianza Substack sia anonima, chiaro artificio retorico per privarla di validità effettiva, e cerca di sostenere che il video replica diffuso sui social per rispondere alla polemica che stava divampando fosse “ironico”. “La spiegazione della Scuola Holden è che per abitudine vengono pubblicati video “ironici e autoironici”, ma che si è preferito toglierlo per non rinfocolare la polemica”, scrive Repubblica.
Il Giornale si espone. Difende Kants Exhibition, fa un’analisi cruda di un fenomeno che altro non è che il classico “segreto di Pulcinella” da sempre sottaciuto. “La scuola Holden non è uno scandalo. È semplicemente la normalità del sistema culturale in Italia. Una cultura che non ama l’arte, ma l’apparenza. Che non cerca verità, ma appartenenza. Che non costruisce ponti verso il mistero, ma salotti in cui parlare per slogan”, si legge nella chiusa. Nulla da dire, è verità. Però è una verità che pochi hanno il coraggio di scrivere e fa onestamente specie leggerla nero su bianco su una testata di centrodestra, ambiente politico dove uno dei motti più in voga è sempre stato “con la cultura non si mangia” (cit.), testata che a più riprese ha supportato i tagli ai fondi di settore, tagli che hanno di fatto consentito a sistemi culturali come Holden di proliferare senza sforzo alcuno.
Anche FQMagazine si è esposto con un articolo poco di cronaca e molto di critica. Il Fatto Quotidiano ha anche contattato la scuola per chiedere conto della clip e per un commento sull’intera vicenda, ma l’istituto ha fatto sapere che al momento preferisce rimanere concentrato su un passaggio importante per gli allievi come la cerimonia di laurea di Academy che si è svolta nella giornata di venerdì 27 giugno. Al 1° luglio tutto tace, comunque.
Per il resto, di esposizione sul tema da parte della stampa italiana - soprattutto quella più progressista da cui ci si aspetterebbe eccome una presa di posizione - ce n’è stata poca. Pochissima. Quasi tutta mera cronaca di un bubbone difficilmente ignorabile a causa della cappellata fatta da Holden con la pubblicazione dell’infausto video poi rimosso. Questo è il dato più interessante, perché è evidente per l’ennesima volta come il sistema si autoprotegge e protegge chi fa parte del sistema. Perché cane non mangia cane.
Cercare di nascondere la polvere sotto il tappeto e fingersi morti aspettando che la buriana passi, sostanzialmente è la strategia di Holden. Quanto di più controproducente si possa fare. E non ci si aspetta di certo una gestione della crisi così infantile da quella che dovrebbe essere una vera e propria istituzione nel panorama della comunicazione.
Quello che la vicenda della Scuola Holden ci mostra in maniera piuttosto cristallina è però un’altra cosa, che ha ben poco a che fare con la sola scuola torinese ma molto di più con il sistema di alta formazione tanto in voga in questo sventurato Paese. Un Paese dove ogni anno migliaia di talentuosi giovani fuggono verso altri lidi, all’estero, perché nonostante abbiano investito decine di migliaia di euro in formazione, si trovano le porte sbarrate. A livello economico ma ancor di più a livello di opportunità. E se parliamo strettamente del campo della cultura, dell’editoria, del giornalismo, ancor di più. Un settore caratterizzato da stipendi bassissimi, contratti farlocchi, sfruttamento per i più. Perché le opportunità migliori sono riservate a chi proviene dai contesti giusti, mica a chi ha talento e ha investito per migliorarsi. Conta chi sei e da dove vieni, chi conosci e chi può presentarti. Una meritocrazia che di meritocratico non ha nulla, ma anzi è l’essenza del capitalismo più bieco dove ad andare avanti sono quelli che già partono in vantaggio. Per tutti gli altri, illusioni pagate a caro prezzo e un biglietto di sola andata verso Paesi dove il talento ancora conta qualcosa.
Al solito: like, repost, commento. Ora leggo.
Avevo letto l'articolo, triste ma interessante, e mi aveva provocato un fortissimo disagio. Quando avevo 18 anni mi iscrissi alla "palestra Holden", sceneggiatura. Non potevo permettermi di più. Lezione numero 1: "Non fatevi illusioni, non diventerete mai sceneggiatori".
Al di là di questo, trovo sempre molto stucchevole la retorica della meritocrazia e il cammino aperto "solo ai migliori". Non dovrebbe essere lo scopo di una scuola, quello di fornire elementi per migliorarsi?